Tra le eroine di Agra
- Saz
- 26 apr 2017
- Tempo di lettura: 4 min
Originally published on 26/04/2017 on Letteradonna.it, © NEWS 3.0 S.p.A. via Garofalo 31, 20133 Milano - P.IVA 07122950962

Mi si stanno sbriciolando le labbra. La nostra prima settimana on the road in India, tra Agra e Jaipur - porta d’ingresso al Rajasthan, regione di colori, fortezze e deserto – è stata pesante. La vita da turista non si addice all’estate indiana, alla violenza del suo calore. Sono bastati pochi giorni di viaggio e la mia pelle ha già alzato bandiera bianca: se la protezione 30 mi sta salvando dalle scottature solari, a nulla sembrano servire applicazioni costanti di burrocacao e olio di cocco contro la secchezza causata dal vento caldo che soffia giorno e notte. Non importa quanta acqua si possa bere e sudare in questi 43 gradi di sole: non ho mai avuto labbra così secche prima d’ora, si sbriciolano e il vento se le porta via, a pezzetti. Guardandomi allo specchio penso che la mia pelle secca sia il primo pegno da pagare all’India che mi ha accolta in un abbraccio soffocante. Stringe, stringe forte e allenta la morsa solo quando non riesco più a respirare.
Mi rendo conto di assecondare a mia volta questo ritmo perverso: sono stata io a decidere di venire qui e in India sto restando, nel pieno dell’estate. Lei si comporta semplicemente nell’unico modo in cui è capace: toglie per poi dare, quando meno te lo aspetti.
Io e Remy ci idratiamo tramite lassi, rinfrescante bevanda a base di yogurt e zucchero, Maaza, rivitalizzante soft drink al gusto mango, il solito chai al cardamomo, the caldo che regolarizza la temperatura corporea, e tanta, tanta acqua. La pelle riprende vita, la testa ricomincia a ragionare. È tutta una questione di pelle, qui in India. Il contrasto tra la mia e quella di Remy che in pochi giorni è subito bella abbronzata crea qualche confusione, la gente non riesce ad inquadrarci: «Sei indiano?» gli chiedono, e lui risponde: «Sì, i miei genitori». Ma il suo accento americano è troppo forte, la mia pelle troppo caucasica e soprattutto il mio cappellino con la visiera e gli occhiali da sole lanciano da tutte le parti un messaggio forte e chiaro: turista! E quindi veniamo attaccati a parole, a gesti e persino strattonati per strada: «Signora vieni, entra nel mio negozio; ti serve un passaggio in risciò?». E ancora: «Pantaloni, vuoi i pantaloni? Solo 300 rupie!»

Avere la pelle chiara è ancora considerata una qualità esotica qui in India: ho smesso di contare le volte in cui ragazzine e ragazzini indiani hanno chiesto di fare un selfie con me, quasi fossi una celebrità. Io sorrido e mi guardo nello schermo dei loro cellulari: mi sento così pallida al loro confronto e mi vergogno per le occhiaie che mi circondano gli occhi, e queste labbra così secche...«You are so sweet», mi ha detto una 16enne, forse perché le facevo pena lì, davanti al Taj Mahal col mio cappellino chiaro per prevenire le insolazioni e bottiglia d’acqua in mano. Dovrei iniziare a fare come loro piuttosto che si coprono il viso col velo del sari nelle ore più calde. A volte si nascondono anche per pudore, quando i turisti scattano troppe foto alla gente comune che cammina per strada. Altre, invece, lo fanno per la vergogna di quello che il velo sollevato potrebbe rivelare dei loro volti, come ho capito durante la nostra visita ad Agra.
Dopo avere visitato l’immacolato e imponente Taj Mahal, ci siamo fermati a mangiare un boccone in un posto tutto colorato che si chiama Sheroes’ Hangout (Il punto di incontro delle eroine): è il primo di tre bar indiani gestiti esclusivamente da donne vittime di attacchi con l’acido.
Secondo i dati raccolti dalla NGO Acid Survivors Foundation India, nel 2014 in India sono avvenute 329 aggressioni con l’acido, la maggior parte contro donne, un fenomeno tristemente in crescita negli ultimi anni. I dati raccolti sarebbero inoltre solo la punta di un iceberg che nasconde migliaia di altre vittime troppo impaurite per sporgere denuncia. Vengono attaccate e poi restano lì, tra le spesse pareti delle case di campagna, si vergognano di essere state sfigurate e si nascondono dietro il velo del sari. Nonostante la gravità di quello che hanno subito queste donne, o forse proprio per quello, è stato bello sedersi tra le Sheroes’: c’erano Rupa, attaccata dalla matrigna quando aveva 15 anni, Neetu lavata d’acido dal padre a soli tre anni con mamma e fratellino di un mese che ha perso la vita, e Dolly, colpita al volto a 12 anni da un uomo di 25 mentre camminava per strada. Le ragazze servivano ai tavoli, gestivano un piccolo negozietto di souvenir, ogni tanto si sedevano per riposarsi e iniziavano a messaggiare al cellulare; si avvicinavano allo stereo e cambiavano la musica, poi canticchiavano.
Ci sorridevano e anche se la loro pelle tirava sotto le cicatrici, gli occhi disallineati ci guardavano limpidi, leggeri: l’impresa eccezionale è essere normale, cantava Lucio Dalla, ed è proprio questa l’atmosfera che si respira da Sheroes’.
La triste eccezionalità della storia di queste ragazze, la terribile violenza che hanno subìto, si è finalmente trasformata nella normalità di un lavoro al bar, in piena luce del sole, incontrando ogni giorno tante nuove persone, sorridendo alla forza che ci è voluta per tornare ad essere semplicemente normali grazie alla possibilità di un lavoro.
La storia che Sheroes’ Hangout racconta non è quella del passato, degli attacchi con l’acido, ma è una storia che parla di futuro, di rinascita, di supporto e nuove opportunità. Cosa vuoi che siano delle labbra sbriciolate rispetto alle tracce di dolore incise su questi volti? Cammino per strada e lascio che si sbriciolino al vento. L’India si è presa la mia pelle e mi ha regalato un paio d’ore con le eroine di Agra, e se per loro va bene così allora va bene così anche a me.
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