Millennials made in Malesia
- Saz
- 26 lug 2017
- Tempo di lettura: 4 min
Originally published on 26/07/2017 on Letteradonna.it, © NEWS 3.0 S.p.A. via Garofalo 31, 20133 Milano - P.IVA 07122950962

Tutto il mondo è Paese, mi sono detta mentre leggevo un quotidiano locale in un bar della Malesia. Quando si viaggia, basta sfogliare i giornali per capire che aria tira nello Stato che stiamo visitando e là, con mia grande sorpresa, tira un’aria simile a quella europea. Era maggio 2017 e, in prima pagina su The Star, ho notato una notizia: La Malesia ha rafforzato la difesa dei propri confini dopo gli attacchi dello Stato Islamico in Paesi vicini e i leader musulmani si sono appellati alla pace (il riferimento era alle rivolte di matrice estremista avvenute nelle Filippine e in Indonesia a fine primavera). Poche pagine più in là, un altro articolo titolava: La rabbia della loro generazione, dove ‘loro’ stava per i giovani Millennials malesi, insoddisfatti della propria situazione professionale ed economica tanto quanto quelli d’Occidente. Insomma, seduta in quel café di Malacca, dalla notizia sulla Generazione Y alla dura condanna degli attacchi terroristici dell’Isis, mi sono sentita come se stessi leggendo un giornale stampato in qualsiasi Stato europeo e il mio cervello è andato in cortocircuito.
Quindi, mi dicevo, non sono solo i mercati del lavoro d’Europa, saturi e appesantiti, che danno filo da torcere ai giovani in cerca di lavoro. Anche in un Paese dal recente sviluppo economico come la Malesia, i nati tra gli Anni '80 e i 2000 non sono contenti delle opportunità che hanno.
«Il mondo è pieno di incertezze e le nuove generazioni si sentono insicure. Entrano in un mercato del lavoro competitivo con stipendi non adeguati e faticano a comprarsi una casa, a iniziare una famiglia», commentava nell’articolo Datuk Seri Syed Arabi Idid, professore a capo dello studio. Proprio come tanti giovani italiani, borbottavo io sempre più sorpresa, addentando pancakes e uova, e sbirciando la coppia di ragazzi accanto a me, completamente occidentalizzati nel look e seduti al tavolino di quel café un po’ hipster, come ce ne sono tanti in Europa e, a quanto pare, anche in Malesia. Sembra proprio che, in questo mondo globalizzato, abbiamo attaccato ai Paesi asiatici sia il bello che il brutto delle nostre società.
Eppure quella malese è storicamente peculiare e viene spesso portata ad esempio come meritevole, soprattutto in termini di integrazione. Tutt’oggi, nei suoi confini vivono fianco a fianco comunità musulmane (51% della popolazione, secondo i dati diffusi da Cronache Internazionali), cinesi confuciane (25%) e indiane induiste (7%). Al contrario di alcuni Stati vicini (Thailandia, Indonesia e Filippine), scossi da movimenti separatisti d’ispirazione etnico-religiosa, camminando per la Malesia si ha l’impressione di una convivenza pacifica tra popoli diversi e di una modernizzazione velocissima che ha lasciato il segno, anche se non sempre in armonia con le culture tradizionali.
Basta fare un po’ di ricerca invece per capire come la vera particolarità di questo Paese sia piuttosto quella di avere cercato di infilare alle nuove generazioni (ai Millennials, appunto) vestiti all’Occidentale, forzandoli allo stesso tempo a coprirsi il capo come da tradizione musulmana, senza alcun riguardo per le differenze etniche.
Insomma, va bene convivere tutti nello stesso Paese, basta però che i malesi nativi vengano avvantaggiati e che ognuno stia nel proprio orticello (vi ricorda qualcosa?). E infatti le città sono divise per zone: quella indiana, quella cinese, eccetera.
Ne aveva già parlato Tiziano Terzani: «un processo di pulizia etnica alla rovescia», aveva scritto nel suo libro Un indovino mi disse (1995) in riferimento al piano di governo trentennale Vision 2020promosso dall’allora Primo Ministro Mahathir Bin Mohammed. Per togliere soldi e business ai cinesi, che dopo l’ondata migratoria degli Anni '40 e '50 avevano preso in mano due terzi della ricchezza del Paese (dato Cronache Internazionali), il governo ideò un piano politico ed economico con due scopi finali: modernizzare lo Stato su modello occidentale e ridare la Malesia ai Malesi. Nel corso degli ultimi 30 anni, le altre etnie sono state tagliate fuori. Sì, nel Paese ci si può imbattere in un tempio taoista accanto a uno induista e a una moschea, eppure l’unica cultura completamente supportata dallo Stato è quella malese musulmana.
Col passare degli anni, Vision 2020 è stato aspramente criticato per la promozione del benessere lavorativo su base etnica e i frequenti arresti nei confronti di oppositori e giornalisti che volevano segnalare casi di corruzione e malgoverno. E sono state soprattutto le nuove generazioni ad alzare un sopracciglio critico rispetto alla buona riuscita del progetto di governo, proprio quelle su cui Mahathir aveva puntato tutto.
No, i giovani Millennials malesi non sono contenti: irrobustiti nella loro identità nazionale da 30 anni di politiche di discriminazione positiva, sono al contempo stanchi del clientelismo e delle legislazioni ortodosse islamiche e hanno iniziato a trasferirsi in quei Paesi ‘moderni’ occidentali, considerati da tempo un esempio da seguire.
Tanto che, per frenare il malcontento e l’emigrazione di menti brillanti e forza lavoro in cerca di una flessibilità che la Malesia non sembra poter dare, l’attuale Primo Ministro Najib Razak ha deciso di lanciare un nuovo piano trentennale: 2050 National Transformation, un progetto che chiederà a più di un milione di giovani di condividere le proprie idee per trasformare lo Stato in una nazione competitiva a livello mondiale, dove le parole d’ordine saranno rispetto per l’ambiente, sviluppo tecnologico e benessere dei cittadini. La domanda da porsi però è: di quali cittadini? Tutti o una sola parte? Di 30 anni in 30 anni, sembra che il Paese sia riuscito nell’incredibile compito di fare dei passi in avanti richiamandosi al nazionalismo ortodosso.
Ora bisogna capire se ai giovani Millennials malesi, sempre scontenti, in cerca di qualcosa di più dalla vita e restii a seguire delle regole predefinite, questo potrà bastare. Al momento sembra proprio di no, come da perfetta parabola sulla Generazione Y: certe volte, basta leggere i giornali per capire che, al di là delle diversità, tutto il mondo è Paese.
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