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Di Maturitá e giovani disoccupati

  • Immagine del redattore: Saz
    Saz
  • 18 giu 2015
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 13 feb 2018



Guardo una foto che mi ritrae pochi giorni prima del mio esame di Maturitá: sono pallida e negli occhi nascondo un vago senso di terrore. Risale a dieci anni fa.

Quest’anno l’esame da incubo tocca a mio fratello: 19 anni, lo stesso senso di smarrimento, e tanta sfacciataggine in piú (se possibile). Poi penso all’assistente che lavora con me qui a Oxford: 22 anni appena compiuti, in tasca una laurea, un impiego full time trovato un mesetto dopo la corona d’alloro, e fresca fresca di promozione sul lavoro. Penso a quello che mi ha detto l’altro giorno dopo che abbiamo scoperto che é stata promossa, e quindi non sará piú la mia assistente dopo tutto (avanti il prossimo e si salvi chi puó): “Mi hanno presa a un master in Storia, la mia passione. Inizia a Settembre ma non ha senso uscire dal mondo del lavoro adesso, mi hanno promossa e io resto qui a lavorare”.

Scatta il déjà vú: come é possibile che io (a 26 anni non a 22) mi sia licenziata da un lavoro full time a Milano per fare un master in terra inglese, dopo che giá avevo in mano una laurea triennale e una specialistica, titubando, sí, ma sapendo in cuor mio di stare facendo la scelta giusta per le mie prospettive di carriera? A nulla pare siano servite le mie proteste incredule... la mia (ex) assistente non ne ha voluto sapere: il master non lo fará con buona pace all’amore per l’Antico Egitto.


Penso quindi a mio fratello oggi, che sta affrontando la Maturitá e a Settembre andrá all’universitá, pronto a vivere quelli che forse saranno gli anni piú belli della sua vita. Grande ma ancora piccolo, una vita a responsabilitá limitata. Cosi’ come é stato per me e i miei amici a 20, 21, 24 anni: chi tra noi desiderava giá di far carriera, in fretta, che giá a 23 anni é tardi (!) ?

Pensa che ti ripensa mi va in corto circuito il cervello: come é possibile che i 20enni inglesi siano cosi’ diversi dai 20enni italiani? Chi avrá ragione?

Carriere veloci in giovane etá in Italia, si sa, sono piú un’eccezione che una regola rispetto a quanto succede ai ragazzi inglesi: vuoi perché in Inghilterra le scuole superiori finiscono un anno prima, vuoi per l’alta percentuale di chi va a lavorare (e trova lavoro) direttamente dopo la laurea triennale.

Il sistema universitario britannico poi é tutto diverso, e forza al senso di responsabilitá: si vive da soli, in college, e le rette da pagare sono altissime. Lo Stato garantisce un prestito a tutti gli studenti che lo desiderano. Soldi che poi ognuno ripagherá in rate non appena troverá lavoro, proprio come un mutuo con tanto di interessi. La maggior parte dei genitori non paga per gli studi dei figli, o ne paga solo una parte, e si lamenta pure quando lo deve fare.

La societá civile poi, detta il suo tempo inesorabilmente, e chi si ferma é perduto: lavoro, matrimonio e figli prima dei 30 sono un dovere morale, tranne che per chi vive nelle cittá piú grandi, ed é un po’ piú sgamato, o ribelle, o curioso di vedere che succede camminando a zig zag invece che in linea retta. Non sempre chi sogna una vita diversa viene compreso, piú spesso gli amici lo accolgono come una bestia rara che al senso pratico oppone un’affascinante eppure irrimediabilmente immatura diversitá.

Tra i miei amici italiani invece il bisogno di una definizione professionale é arrivato quasi sempre piú tardi dei 21 anni. Io, per esempio, nonostante sulla carta abbia iniziato il mio lavoro giornalistico a 20 anni mentre studiavo, un’idea piú definita di ‘fare carriera’ l’ho sviluppata solo durante il mio master, a 26 anni; di fatto sono stati proprio gli inglesi a insegnarmi una cosa fondamentale: non vergognarmi nell’affermare che sí, ora sono una professionista del marketing editoriale e ho il diritto a chiedere, cosí come il dovere di fornire il servizio migliore possibile, sempre nel nome delle mie capacitá professionali. Temo non si sentano proprio cosí anche tanti miei amici che sono rimasti a Milano, cui hanno tarpato le ali cosí bene da stare riuscendo nell’antiobiettivo di non farli diventare mai grandi.

Di chi é la colpa? Del sistema? Dei genitori? Della scuola? Perché la mia laurea specialistica in Italia non mi ha preparata a entrare nel mondo del lavoro e mi ha insegnato “solo” tante cose belle?

La scuola italiana ha il pregio di dare per scontata la necessitá di nutrire lo spirito. In Inghilterra, invece, insegnano agli studenti l’urgenza dell’entrare nel mondo del lavoro (ebbene sí, anche ai laureati in Storia e Lettere), perché lavorare fa parte di uno status sociale desiderato e obbligato che batte 100 a 1 quello di intellettuale che tanto ancora fa figo nel panorama sociale italiano.

L’esempio per eccellenza dell’importanza italiana dello sfoderare la Cultura a tutti i costi, quella con la C maiuscola, é proprio l’esame di Maturitá. Quando ho raccontato agli inglesi come funziona la Maturitá italiana hanno pensato che stessi esagerando. Ho visto stupore, incredulità, e paura persino nei loro occhi. Anche loro che questo esame non l'hanno fatto e non lo dovranno affrontare mai mi hanno chiesto: ma come possono domandarvi potenzialmente di tutto quello che avete studiato nell'ultimo anno di scuola (e sulla carta anche di tutto quello studiato prima)? E come fanno dei 19enni a essere in grado di scrivere una tesina? (Lo sapevate che in Inghilterra neppure molti corsi di laurea triennale prevedono la stesura di una tesi finale?). E ancora, quando ho raccontato agli inglesi come studiamo la Storia a scuola, in Italia, di nuovo hanno strabuzzato gli occhi: noi la Storia la percorriamo tutta, dall’inizio a oggi, una cronologia attraversata da movimenti di pensiero trasversali. Lo sapevate voi che in Inghilterra invece la storia si Studia per moduli? Ogni insegnante sceglie un argomento, lo sviscera, e sorvola sugli gli altri. È capitato cosí che due mie colleghe siano fan numero uno di Garibaldi (sissignore, quello che fuffferito ad una gamba) e non sappiano un bel niente della rivoluzione russa.

La scuola e l'universitá italiane chiedono molto ai loro studenti dal punto di vista intellettuale, tenendo l’asticella sempre ben alzata. L’elenco di tutte le belle cose che in media un 20enne italiano sa in piú di un giovane inglese é potenzialmente infinito. Il problema sorge nel momento in cui l’asticella che la scuola ha tenuto tanto in alto cade rovinosamente sul muso di tutti i ragazzi che raggiungono l’agognata fine del percorso di studi, soprattutto universitario.

Possiamo essere orgogliosi di avere dei 19enni in grado di scrivere un saggio breve sulla resistenza partigiana, cosí come ci vergogniamo dei 28enni disoccupati cui hanno tolto il diritto a formarsi un’identitá professionale consapevole di quello che puo’ dare e di quello che puó chiedere, con senso di responsabilitá annesso.

Il vero peccato del sistema italiano non é quello di nutrire i propri studenti a pane e Dante, innescando sogni di grandezza intellettuale (e, di conseguenza, professionale) ma é quello di riempirli di bastonate non appena provano ad alzare la testa per mostrare che hanno imparato tutto quello che gli é stato chiesto, e anche di piú! E ora hanno voglia – bisogno – di dare indietro, di portare il proprio contributo adulto alla societá.

È ora di ricominciare a darci il diritto di crescere; il diritto a dare; il diritto ad avere qualcuno che crede in noi, invece di trattarci come dei bamboccioni, fino a farci credere che lo siamo sul serio, mentre in realtá ai nostri coetanei europei il c*** riusciamo sempre a spaccarglielo quando per disperazione e per orgoglio ci ritroviamo a lavorare all’estero, in esilio volontario e forzato. E nessuno pare avere ancora capito quanto potenziale per l'Italia stia andando perso.


Originally published on my blog Gufi da Hogwarts, 18/06/2015

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